La macchina che costa fatica

Museum Artifacts – Prompt:

Fai un giro in un museo, identifica un oggetto che ti piace, e immaginane la vita che può aver vissuto.

“Ma ti pare che, in una giornata del genere, la Robi ci debba far rinchiudere in un museo?” domandò Andreas a Fumagalli mentre Lalore si stava ancora preparando.
“Si vede che è il prompt che lo richiede,” rispose laconicamente Fumagalli.
Andreas sospirò e concluse:
“Quasi quasi preferivo quelli di Jess.”
“Chissà come sta…”
“Sicuramente non bene,” disse Andreas prendendo il guinzaglio di Fumagalli.
“Che cosa te lo fa pensare?”
“È primavera. Decisamente primavera,” rispose indicando la finestra del salotto.
Fumagalli aspettò in silenzio qualche dettaglio in più.
“Le arance sono fuori stagione,” concluse Andreas sorridendo divertito.
Fumagalli espresse il suo giudizio sulla battuta scotendo un po’ le penne. Quando la serratura del bagno scattò, le scosse completamente per prepararsi.
Quel pomeriggio stavano dirigendosi verso un museo molto particolare, che fornì loro l’argomento di una accesa discussione e ricerca su internet:
“Museo della macchina da scrivere. O per scrivere?”
Quando arrivarono al museo, fu chiaro che erano gli unici visitatori, in quel primo sabato soleggiato dopo settimane di pioggia, nuvole e giubbotti ormai stanchi.
L’addetto fu molto gentile e li coccolò, spiegando loro molto dettagliatamente la storia dell’apparecchio e la sua evoluzione, espressa dai vari modelli raccolti nel museo.
Poi mostrò loro delle macchine da scrivere più particolari, come quelle con caratteri giapponesi, o a forma di calotta cranica.
“Ma,” disse l’addetto, “anche una all’apparenza normale macchina da scrivere può racchiudere una storia interessante. Ad esempio, questa.”
L’uomo si avvicinò a una macchina del tutto regolare, con tasti tondi e neri, molto consumati, praticamente punzonati: le lettere quasi non si vedevano più.
“È una normale, per l’epoca, Olivetti lettera 22. Nulla di esotico, direte voi. Ma lasciate che vi racconti che cosa si nasconde dietro quei tasti…”
Ad Andreas sembrò di essere stato catapultato nell’ultimo episodio della serie che, insieme a Lalore e Fumagalli, stava guardando in quei giorni: Black Mirror, scelta con l’intenzione di mettersi in pari per il rilascio della nuova stagione.
Ascoltò con attenzione le parole dell’addetto, aspettando una tragedia o un truce colpo di scena.

Erano gli anni dei capi che fumavano in ufficio e delle segretarie magre rigorosamente con le gonne e i tacchi. Gli anni della ripresa economica e dei fermenti intellettuali.
In un ufficio di una ditta piemontese, partita solo qualche anno prima come l’idea di un visionario e diventata infine una realtà economica che dava lavoro a qualche decina di operai, lavorava una povera segretaria. Madre di tre piccoli, era stata recentemente abbandonata improvvisamente dal proprio marito, che aveva deciso di protestare a tempo pieno contro il sistema capitalista insieme ai suoi amici della sezione locale del partito.
Il capo della ditta era molto affezionato a questa segretaria, perché estremamente dotata: era un’ottima stenografa, e conosceva a memoria ben 30 numeri di telefono, dai fornitori delle materie prime, alle aziende di trasporto per smistare i prodotti finiti in tutt’Italia. Era un piacere per lui vederla muovere fluidamente la penna sul foglio per tracciare quel garbuglio di segni, o inserire il proprio becco nei fori del disco del bigrigio, mentre lui era già pronto con la cornetta.
Sì, perché la povera segretaria si chiamava Costa, ed era una pavonessa.
Ogni sera, Costa tornava a casa dai suoi piccoli, ma più passavano le settimane, e più questi crescevano, richiedendo sempre più attenzioni e denaro: giornali illustrati, biglietti per il cinematografo, i 45 giri delle canzoni in voga, e anche qualche libro.
Fu così che Costa, oltre a maledire il proprio marito che, per protestare contro i capitalisti, aveva di fatto impoverito lei e i suoi figli proprio al pari di coloro che voleva spodestare dal comando del sistema, pensò che l’unica soluzione fosse trovarsi un secondo lavoro.
“Ma Costa,” le aveva detto la signora Barbero, sua vicina di casa, “sei una pavonessa sola, con tre figli. Chi ti darà un altro lavoro? Faresti piuttosto meglio a trovarti un altro marito, perché non è bene che tu stia sola. E poi sei ancora così giovane.”
Costa urlò.
“Ho 17 anni!” rispose alla vicina.
“Ma pensa, sei perfino minorenne!”
Costa non le spiegò che, per i pavoni, quella era una veneranda età.
Oltre a essere diciassettenne però, Costa era anche una pavonessa che non sapeva arrendersi e cercò annunci di lavoro sulle pagine delle riviste locali, fino a che ne trovò uno per dattilografa.
Con la sua testa mobile e il becco preciso, venne immediatamente assunta dall’inserzionista: uno scrittore dalla pessima calligrafia che voleva i suoi testi battuti a macchina. Il fatto che la sua grafia fosse orribile, rassomigliante a quanto Costa stenografava, non era un caso: lo scrittore era infatti un medico.
Come già detto, erano quelli anni di grande innovazione, intuizione e cultura, e quel medico non era inferiore ai suoi contemporanei: aveva scritto un romanzo sul genere che qualche decennio dopo sarebbe stato di grande successo e chiamato il medical drama.
E così, ogni sera dopo del lavoro nella ditta dove stenografava, Costa andava a casa dello scrittore medico, a consumare bobine di nastro. Poi, dopo aver battuto le dieci cartelle giornaliere, tornava a casa dai suoi piccoli, con il becco dolente e le lire extra che si era guadagnata.
Ogni sera Costa guardava i suoi figlioli, stanca ma contenta: stavano venendo su bene. Presto avrebbero raggiunto la maturità sessuale e avrebbero lasciato la casa. A quel punto, se non avesse trovato un altro compagno per la successiva stagione dell’accoppiamento, non avrebbe avuto più covate. E se ne avesse trovato uno, avrebbe sì avuto altri piccoli, ma molto probabilmente lui avrebbe avuto un impiego. In ogni caso, non avrebbe dovuto più rompersi la schiena o, meglio, il becco, per mantenere la casa.

L’addetto non aggiunse altro.
“E finisce così?” chiese Andreas, non nascondendo la delusione.
“La storia della macchina da scrivere sì. Le vendite del romanzo furono piuttosto misere e lo scrittore medico o, meglio, medico scrittore, dopo aver portato la macchina da scrivere in soffitta, tornò a dedicarsi a tempo pieno ai mutuati, restando solo medico.”
“E Costa?” chiese Lalore.
“Sappiamo che decise di restare da sola e che si dedicò all’insegnamento gratuito della stenografia alle donne sole. Quelle degli uomini della sezione locale del partito che erano andati a perseguire la nobile causa.”
“Che femmina,” concluse Lalore.
“Scusa Fumagalli,” disse Andreas, “una delle tue nonne si chiamava Coppola, ma l’altra? Non potrebbe essere questa Costa?”
Fumagalli urlò:
“Ma no: le mie nonne sono nate negli anni ’80.”
Andreas annuì, ma Fumagalli proseguì:
“Costa era la mia trisavola.”
Urlarono tutti.