L’esibizione in libreria

I’m Glad You Called – Prompt:

La persona che hai provato a chiamare a lungo risponde finalmente al telefono. Chi è questa persona? Perché hai provato a chiamare così a lungo? Come procede la conversazione?

Considerato da dove era partito, Phil era diventato un chiacchierone. Con un paio di mesi in anticipo rispetto al suo proposito di inizio anno, era arrivato a parlare ogni sera per un totale di cinque minuti, e a dire in tutta tranquillità delle frasi sparse durante il giorno.
Billa ne era felice come una mamma dei progressi del proprio piccolo. Anche la sua terapista era fiera dei suoi progressi, ma anche del proprio successo: stava perfino pensando di scrivere un articolo o due sul complesso caso del suo paziente e, tramite essi, sognava di arrivare a pubblicare, un giorno, uno di quei libri di psicologia popolare, in vendita in libreria o allegati a riviste, che promettono sempre qualcosa per migliorare questo o quel lato del carattere o, più sinteticamente, di essere felici.
A valle di quei progressi, la terapista chiese perciò a Phil di avere una sessione telefonica, e non su chat.
Chiamare?
scrisse Phil in risposta.
La terapista gli spiegò che non era poi molto diverso dal parlare, cosa che già faceva, ma Phil sembrava titubante.
Durante la sessione di terapia, fatta quindi regolarmente in chat su Whatsapp, venne così fuori che chiamare qualcuno era per Phil una forte fonte di disagio: con la sua autostima, ancora poco al di sopra dello zero, telefonare a una persona equivaleva a dire che fosse necessario parlare. Phil non sentiva che le proprie motivazioni per l’inizio o, meglio, imposizione di un dialogo fossero così importanti. Preferiva perciò scrivere, lasciando all’altro la libertà di decidere i tempi di risposta.
La terapista decise allora di assegnare a Phil un nuovo obiettivo: imparare a fare le chiamate.
E ti posso garantire che, al giorno d’oggi, ognuno è contento di ricevere una chiamata, e non un messaggio,
concluse la terapista in chat.
Phil accettò la nuova sfida ma, vivendo sempre in casa, non aveva mai la necessità di chiamare qualcuno, nemmeno i componenti della band jazz alla quale apparteneva: li vedeva regolarmente ogni settimana, quando venivano lì nell’appartamento del signor Cavalleri a fare le prove.
Fu però una di quelle serate a gettare le basi per l’esigenza di una telefonata.
“Ragazzi, devo farvi un annuncio,” disse il gemello tastierista, che si faceva chiamare Gian, prima di sistemare il proprio strumento a fine prova.
Tutti gli altri componenti umani della band si fermarono e lo ascoltarono.
“L’altro giorno sono passato in libreria a comprare un libro di Kilgore Trout-”
“Chi?” chiese il nuovo elemento della band, il contrabbassista. Un uomo alto e magrissimo, che pareva sopportare a stento la stazza del proprio strumento.
“Un autore di fantascienza dell’epoca d’oro,” spiegò Gian, “comunque, ero lì e ho visto un piccolo manifesto nel quale pubblicizzavano un evento. Un aperitivo in libreria allietato dalla musica di una band jazz. Allora ho chiesto un po’, mi hanno messo in contatto con il responsabile… Insomma, venerdì prossimo ci esibiamo in libreria!”
Esultarono tutti, tranne il gemello batterista, verosimilmente già a conoscenza della notizia, e Phil. A prima vista, dato che era nella scatola, non era possibile dire la sua reazione. Fu però chiara quando disse:
“Io non sono un animale da palcoscenico, ma solo un animale molto brutto.”
“Puoi stare nella scatola, non è un problema,” disse il gemello batterista, che si faceva chiamare Pier.
“E, magari,” si intromise Billa che, come sempre insieme agli altri abitanti della casa, aveva assistito alle prove, “posso procurartene un’altra e decorarla per l’occasione. Anzi, chiederò a Fumagalli di farlo. Sarà bellissima!”
“Io non sono mai uscito di casa, da che sono arrivato qui,” ribatté Phil.
“A questo abbiamo già pensato noi,” disse Gian, “un nostro amico ci può prestare un carrello porta pacchi. Il trasporto non è per nulla un problema. Davvero Phil: non puoi mancare.”
Sembrava che tutto fosse stato chiarito con quella conversazione, ma la mattina del giorno dell’esibizione, Phil sentì l’ansia salirgli in gola.
Billa se ne accorse dalle macchie di bagnato sulla superficie del cartone della scatola. Gli chiese che cosa fosse successo e Phil si confidò:
“Non ce la faccio.”
Billa, da brava mamma, provò delicatamente a convincerlo, a spingerlo, ma Phil sembrava irremovibile:
“Non ce la faccio.”
Decise così di non insistere ulteriormente, ma gli disse:
“Credo che però sia giusto che tu chiami Gian e gli dica di non poter andare: lui e gli altri ci tenevano tanto a questa esibizione. E poi sarebbe l’occasione perfetta per provare a telefonare.”
Phil le diede ragione su tutto e guardò il telefono che aveva nella scatola. Lo guardò per quasi 10 minuti, poi lo attivò e digitò il codice per sbloccarlo. Poi continuò a guardarlo, fino a che lo schermo del telefono si spense.
Il secondo tentativo andò meglio: riuscì a selezionare il numero di Gian e a premere l’icona della cornetta, ma bloccò la chiamata immediatamente, prima che il telefono prendesse la linea.
Dopo cinque minuti riprovò: questa volta lasciò che il telefono di Gian squillasse, ma l’ansia gli salì e interruppe la chiamata.
Fu il quarto tentativo quello vincente: dopo il saluto di Gian, finalmente Phil disse:
“Non ce la faccio.”
Gian, molto più coinvolto di Billa, tentò in tutti i modi di convincerlo:
“È la nostra occasione, anche se piccola. Pier e io ci teniamo molto, perché era da tanto che non ci capitava.”
“Non ce la faccio.”
“Guarda, pensala così: fai finta di essere a casa e suona anzi, canta come hai sempre fatto. Andrà benissimo. E poi considera che, in queste serate, la gente mangia, chiacchiera, si distrae. Molti non saranno nemmeno del settore. Ci penseranno come un sottofondo musicale. E poi, oggi è l’anniversario della nascita di Jimmy Giuffre, tuo collega sassofonista jazz e pioniere dell’improvvisazione: meglio di così!”
Phil si arrese e decise che, quella sera, ci sarebbe stato, come da programma.
Dopo qualche ora, si trovarono così tutti in libreria: il quintetto al completo, nonché il signor Cavalleri, Billa e Ilgeco, che avevano fatto il viaggio insieme a Phil nell’auto di Gian e Pier.
Per l’occasione, erano venuti anche Andreas, Lalore e Fumagalli, che effettivamente aveva riccamente decorato un nuovo scatolone per Phil, e che questi “indossò” nel bagno della libreria.
Arrivò perfino Bruna, l’amica femminista di Billa, che si sedette al tavolo con il signor Cavalleri.
Poi, alle 19:30, scoccò l’ora dell’esibizione.
Gian disse al pubblico:
“Signore e signori, siamo i Senza nome, almeno per il momento, e vi auguriamo una piacevole serata con noi. Buon divertimento!”
I musicisti iniziarono a suonare e, nella concentrazione, non si accorsero di un fenomeno piuttosto bizzarro. Era vero, come Gian aveva anticipato qualche ora prima a Phil, che la gente era distratta e parlava sulla musica, ma questo comportamento mutò dopo qualche minuto. Il pubblico era in silenzioso ascolto. Non solo: c’erano anche persone che erano entrate nella libreria solo per stare lì, in piedi, davanti alla piccola area dove i cinque si stavano esibendo.
A fine performance fu un tripudio di applausi e urla di giubilo. Il pubblico prese d’assalto la zona della band per complimentarsi ma, più di tutti, per avvicinarsi alla scatola di Phil.
“Signor scatola! Un autografo, un autografo!” gli urlavano.
Phil, intimorito da quella reazione, scrisse uno dei suoi soliti foglietti che, previdentemente, aveva trasferito nella scatola di scena:
Dite a me?
“Sì! Un autografo, un autografo!”
Phil fu senza parole e non rispose. Rese più manifesto il proprio sbigottimento lasciando uscire dalla scatola un foglietto vuoto.
“Un autografo!”
A quel punto, Phil iniziò a far uscire bigliettini con il proprio nome. Uno degli impiegati della libreria dovette fargli arrivare un piccolo blocchetto per gli appunti, perché dopo una decina di minuti, Phil aveva esaurito i foglietti su cui scrivere.
Poi la gente si accomiatò e i musicisti misero a posto i propri strumenti, attorniati dai loro supporter personali, che non la smettevano di complimentarsi.
Phil ringraziava, nella sua scatola di scena, sentendosi soddisfatto di quella giornata.
“Ragazzi, è stato fantastico!” disse Gian, tutto concitato, “e mi è venuto in mente anche il nome della band, se per voi va bene: The jazz musical box.”
Nessuno obiettò.